CORTINA RACCONTA -
GIUSTIZIA IN SALA D'ATTESA
GIUSTIZIA IN SALA D'ATTESA
Evento del:
20/08/2010 16:30
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Audi Palace
Data articolo:
20/08/2010
Contenuto pagina
C’è un giudice a Cortina, o meglio ci sono un sottosegretario, un magistrato, un poliziotto, un procuratore, un avvocato ed un giornalista, qui convenuti a discettare di giustizia.
Il magistrato è Francesco Mìnisci, autore de “La giustizia italiana raccontata ad un alieno”, per dieci anni è stato magistrato in Calabria, terra di sublimi servitori dello Stato e dell’Antistato, didascalizza Toni Capuozzo. L’alieno del titolo è un classico “espediente letterario”, un cittadino di un pianeta perfetto che sbarca al cospetto di un giudice e chiede delucidazioni. Il grafico ha voluto rappresentare in copertina un ectoplasma verde che brandisce il martello tribunalizio, quello con cui nei film americani si minaccia lo sgombero. Il testo abbraccia questioni calde, denuncia ostacoli posti dalla legge, propone soluzioni ragionevoli. Ad esempio in tema di espulsioni obbligatorie degli immigrati clandestini: non solo risulta sproporzionato l’arresto immediato (non previsto neppure per l’uxoricidio) ma addirittura la custodia cautelare.
Giuliano Pisapia è un principe del foro milanese (lui meridionale), in passato è anche stato parlamentare eletto nelle liste di Rifondazione Comunista, oggi è l’unico coraggioso ad essersi candidato in pectore per la poltrona di primo cittadino del capoluogo meneghino. Sarebbe il primo sindaco di origini partenopee, non il primo milanese: chiaro. È autore con Carlo Nordio de “In attesa di giustizia”, un testo di impronta garantista - matrice comune ai due autori - che illustra con sagacia i difetti del sistema giudiziario italiano. Il suo collega è di manifesta impronta liberale, Pisapia invece è da sempre schierato sul lato opposto della barricata. Insieme sono riusciti ad abbatterla per “ristabilire i diritti e garantire le libertà di tutti i cittadini dello Stivale”. Parla di strada nuova da tracciare e propone di divincolarsi da quei mortali abbracci manettari.
Tocca giocare in difesa al sottosegretario alla Giustizia Elisabetta Alberti Casellati, dapprima - incalzata da Capuozzo - resta fedele alla linea berlusconiana e scongiura l’ipotesi di «governicchi tecnici». Poi, replicando a Minisci, si lamenta dei magistrati «militarizzati», propone tanto la classica indipendenza della magistratura dalla politica, quanto l’inedita e geniale indipendenza della politica dalla magistratura. Quanto alla soluzione della crisi: il gioco si fa duro, «se non si trova una forma stabile con cui proseguire a governare, meglio andare a votare entro fine anno». È preparata la sottosegretaria, e risponde alle bordate dei maschietti punto su punto. A chi le rinfaccia di voler porre il silenziatore alle indagini attraverso il ddl sulle intercettazioni, replica a stretto giro: «il nostro obiettivo è demolire la fabbrica del fango».
Raccoglie applausi a gogò il procuratore Repubblica Bari Antonio Laudati, lamentandosi del fatto che l’aver apposto di volta in volta le definizioni di “breve” o “giusto” alle riforme del procedimento civile, ha di fatto significato privare il processo di quelle tante agognate caratteristiche. Vorrebbe sfatare il mito della orwelliana (o kafkiana) della micidiale trappola giudiziaria italiana ove «la condizione giuridica dell’imputato è più pericolosa di quella del condannato». Povera una simile civiltà, avrebbe detto un giurista dell’Ottocento. Sbizzarrendosi con gli aforismi, stupisce la foltissima platea. Questo è quanto: «il processo non è giusto finché non toglie al giudice ogni arbitrio, all’avvocato ogni sospetto ed al colpevole ogni speranza». Il merito è di Filangeri, epperò quanto sembra attuale questa dottissima citazione.
Francesco Cirillo, vice capo esecutivo della pubblica sicurezza, si bea del grande risultato ottenuto in questi anni di lotta senza quartiere all’illegalità. Le forze dell’ordine sarebbero in testa nell’indice di gradimento del popolo italiano, seconde solo al Presidente della Repubblica («che non è che poi goda di così tanta fiducia negli ultimi tempi», stempera il conduttore). Si definisce uomo della strada, o meglio sbirro di strada: non cita dottori della legge né ammette di padroneggiare la sintassi degli azzeccagarbugli. È un estroverso artigiano della giustizia: «quando, trentacinque anni fa, ho cominciato a lavorare in polizia, si usava rivoltare le buste da lettera per risparmiare sulla cancelleria, noi siamo abituati all’austerità». Finisce per arruola il Ministro Maroni: “uno dei nostri”, e riaccende la speranza negli occhi di tutti quegli Italiani che ci credono ancora.
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